mercoledì 13 settembre 2017

FOTO DUNQUE SONO

Scenari sociali e psicologici sul vuoto iconografico che stiamo consegnando alle generazioni future.



Un neonato censurato
Ero così brutto da neonato che la mia prima foto dell’infanzia stampata su carta fotografica risale a quando avevo circa due anni.
In casa si raccontava che ero nato con gli occhi storti e le orecchie accartocciate e per questo motivo mio padre ebbe il buon senso di non stampare, tra le centinaia di foto che scattava con la sua Rolleiflex, quelle risalenti ai miei primi 24 mesi di vita.
Fatto sta che scoprii soltanto durante l’adolescenza quei negativi mai stampati. Capii che ero io in quei 6x6 perché in essi riconobbi i miei fratelli più grandi che mi stavano accanto.

Nel frattempo, prima di scoprire quei negativi e di cui non ero ancora poi tanto convinto della mia deduzione, vissi un periodo di estrema angoscia che solo adesso racconto. Fui travolto da un’atroce crisi d’identità che non auguro a nessun bambino di vivere: non avendo mai visto la tipica foto che mi ritraesse in clinica con mia madre, iniziai a credere di essere stato adottato. Preso in qualche orfanatrofio.

A peggiorare la mia crisi fu anche uno sceneggiato che mandava in onda la tv in quel periodo la cui storia raccontava proprio la vita di un bambino adottato.
Giornate, mesi, forse per diversi anni fui pervaso da questo dubbio che non feci trapelare. Non chiedevo conferme ma cercavo di indagare, da solo, sentendomi in quella che mi sembrava la peggiore delle cospirazioni in cui si potesse trovare un individuo.

Poi mi sono veramente sentito parte genetica della mia famiglia soltanto quando i miei caratteri somatici cominciarono a definirsi nel tempo e iniziai a riconoscere nel mio volto gli stessi tratti dei miei cari.

Forse se non avessi mai visto da bambino le foto fatte in clinica a mio fratello e mia sorella, non mi sarei mai posto il problema e per chissà quanti anni avrei pensato che la mia vita cominciava lì, a due anni, col ciucciotto in bocca, un Topolino in gomma in una mano e con l’altra che cercavo di stare in piedi aggrappandomi alla ringhiera di un balcone.

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Foto dunque sono.
Senza foto che raccontino il nostro passato è come se non fossimo esistiti. O meglio, esistere ma senza prove identitarie. Se non c’è la foto quell’istante è già nell’oblio.
La memoria e le emozioni si disperdono nel tempo.
Perché non possiamo ricordarci tutto. Quante volte ci capita di rivedere una poi non tanta vecchia foto e ricordarsi qualcosa che avevamo totalmente rimosso?

Oggetti tramandati o raccolti durante i viaggi non potranno mai restituirci la stessa memoria che ci rende un album fotografico. La memoria visiva non ha le informazioni delineate che ha una foto.

Si dice che siano state scattate più foto negli ultimi quindici anni che in tutto il cinquantennio precedente producendo un notevole byte-inquinamento e, paradossalmente, ne sono state stampate molte meno su carta.
Il fatto è che ancora non tutti sanno che da sempre un file fotografico può essere stampato sulle stesse carte “ciripiripì” e negli stessi fotolab dove portavamo a sviluppare i rullini delle vacanze. Almeno quelli che sono sopravvissuti. Perché non esiste solo la stampa su carta di pura cellulosa fineart, quella a sublimazione, quella “fotografica” per la stampantina da tavolo a ink-jet ecc. ecc.
Il bello è che non tutti sanno che, nonostante l’inflazione, la crisi economica ecc. ecc., la stampa delle foto col vecchio procedimento in bagni chimici costa quanto 15 anni fa. Cambia solo il supporto originale: non più la pellicola, il negativo, ma dischetto, “pennetta”, scheda di memoria, trasmissione file via internet…

S1m0ne non esiste e forse nemmeno noi esisteremo 
Di una foto se non ne possiedo il supporto analogico, se non posso toccarla, non sarà mai mia perché la foto digitale è una “S1m0ne”, come un inafferrabile ologramma. È pixel. Immateriale, virtuale, matematico. Vedo ma se non è tattile, per me non esiste.
Sono immagini che non ci appartengono perché non possiamo toccarle come una stampa di un album fotografico, una diacolor, un negativo bianconero o una vecchia lastra fotografica. E, cosa più inquietante, potrebbe auto-distruggersi improvvisamente senza mostrare i primi sintomi di deterioramento.
I file digitali non si ammalano: muoiono improvvisamente.
Sarà anche per questi motivi che alcune case stanno iniziando a riprodurre pellicole fotografiche?

L’allarme per i miliardi di foto che non saranno mai stampate creando un buco iconografico per i prossimi anni, è già partito definendolo “Il Medioevo del 21° secolo”, come ci ha già raccontato Vincent Cerf, attuale vicepresidente di Google.
Un file digitale in jpeg o RAW non è garantito nel tempo.
Le storie di Hard Disk sputtanati e, peggio, con tutti i dati irrecuperabili, le conosciamo tutti.
Se perdo il fotofonino, potrò sì ancora vedere le mie foto sul cloud, ma chi mi garantisce che il server che ospita le mie foto esisterà almeno per i prossimi 50 anni?
Possiedo foto di famiglia di oltre 80 anni fa. Ma con il digitale, quale futuro iconografico stiamo invece consegnando ai nostri figli e nipoti?
Ricorderanno forse vagamente di aver fatto un viaggio strepitoso con la famiglia ma, lo sappiamo, la sola memoria distorce non poco la realtà e ci saranno fratelli che litigheranno perché i loro ricordi contrasteranno.

Nuovi malesseri sull'orizzonte della nostra civiltà
I neurologi avranno un gran bel da fare negli anni a venire perché senza foto che tramandino le storie di famiglia, le crisi d’identità, problemi di autostima ed altri disturbi della personalità saranno presumibilmente le problematiche principali da affrontare in una società che corre sempre più rapidamente verso la produzione e fruizione di immagini usa e getta, inutili, ridondanti ma, innanzitutto, nate già cancellate per far spazio ad altre e quindi mai stampate e conservate.

Senza foto del proprio passato, il proprio bagaglio emozionale ed esperienziale sarà impoverito e compromesso.
I nostri figli e nipoti non sapranno come erano fatti a due-quattro anni.
Generazioni future che non si troveranno mai a sfogliare un album di famiglia rimettendo in gioco emozioni e ricordi che non servono ad altro che a creare legami, sentirsi parte di una comunità come quella familiare o amicale.
Perché la personalità è fatta anche di feticismo iconografico, conservazione della propria memoria storica, narcisismo e comunque amor proprio.
E allora quanti bambini crederanno di non aver mai avuto una famiglia? Quanti si sentiranno “fuori dal gruppo” anche in età adulta? Quale sarà l’impatto sociale?

Io credevo di essere stato adottato e per tanti anni sono stato un bambino introverso. Poi trovai i negativi delle foto (mai stampate) che mi scattò mio padre in clinica con mia madre e i miei fratelli ed iniziai ad avere più fiducia nella gente, più stima in me stesso.

Foto, dunque sono. Esisto, sono esistito ed esisterò grazie alle foto.
E prima o poi stamperò quelle foto che mi ritraggono in clinica mentre poppavo.