Vietato
fotografare!Alcune
considerazioni fatte dopo una visita alla mostra “Vetrine” su Andy Warhol
presso il PAN di Napoli.
- Le
dispiace mettere il tappo all’obiettivo?
- No,
no che non lo metto.
In 5 secondi
ero circondato da una decina di persone tra guardie giurate, protezione civile,
addetti alla sicurezza e uno sbirro in borghese che credeva non mi fossi
accorto che mi piantonava come se fossi stato un criminale.
Mette a
disagio una situazione del genere, visitare una mostra con 20 occhi che ti osservano
non è il massimo per un evento culturale, specie se non hai autografi da fare.
Non andiamo
bene ragazzi. Lo dovrei dire ai tipi che hanno organizzato la mostra e di cui
non faccio il nome per non fargli pubblicità, lo dovrei dire all’Assessorato
alla Cultura del Comune di Napoli che ha ospitato la mostra al PAN...
Nessun preavviso al divieto di
fotografare
Chi organizza
una mostra deve rendere chiaro fin dall’inizio sulle restrizioni per il pubblico
riguardo la possibilità o meno di scattare qualche foto.
Non è carino
dover fare una fila di una o due ore, entrare negli spazi espositivi e sentirsi
dire, quando ormai sei dentro, che non ti puoi neanche fare un selfie con una delle opere.
Non è carino,
è stupido, oltre che inutile una simile disposizione di divieto.
Il pubblico di seria B
In occasione
dell’anteprima del 17 aprile, alla mostra Vetrine di Andy Warhol c’era un bel
po’ di gente che, come sempre in queste occasioni, in parte non avevano nulla a
che fare con l’arte. Persone che erano lì perché “invitate” ma che di Warhol
sapevano al massimo che aveva “dipinto” il ritratto di Marilyn Monroe. Quella stessa sera circolavano sui
social network foto di qualsiasi genere riprese in questa occasione. Non voglio
discutere della qualità della maggior parte delle social-photo che circolavano
in rete, ma del fatto che nei giorni seguenti ai visitatori è stato impedito di
fotografare.
Esiste un
pubblico di seria A ed uno di serie B per caso?
“Lei lo sa perché mi sta chiedendo di
non fare foto?”
Il tipo della
sicurezza non sapeva rispondermi. “Ci hanno detto di non far toccare le opere e
di non fotografare”. Gli dico allora che ricevere ordini ed eseguirli senza
saperne il motivo non è cosa dignitosa per un uomo.
Questa cosa
mi ricorda molto quelle torture eseguite dai militari in “missione di pace”
solo perché gliel’hanno ordinato e che eseguono per non subire ripercussioni.
Catalogo, gadgets, venghino signori,
venghino.
Si impedisce
di realizzare qualche scatto fotografico perché c’è una stupida paura che qualcuna
delle foto realizzate dal pubblico possa essere commercializzata sottraendo
profitto al business della gadgetteria.
Ma voi lo
immaginate un catalogo o altro gadget realizzato con immagini Instagram,
riflessi sui vetri delle opere di Warhol, dominanti di colore ecc.? Qualche
folle potrebbe anche realizzarlo ma a chi lo venderebbe?
La libera circolazione delle immagini
contribuisce a diffondere cultura
Quello che
non riesce ad entrare nella zucca di certi organizzatori di eventi, mostre
d’arte e di chi gestisce i Beni Culturali, è che la diffusione delle immagini
amatoriali sono il modo più diretto per pubblicizzare gli stessi eventi.
È meglio
vendere qualche gadget, che di questi tempi in pochi acquistano, o incrementare
l’afflusso di visitatori?
Ricordo di
quando ancora non esisteva internet e vidi per la prima volta le foto di alcune
case di Gaudì scattate da un amico: decisi allora di andare a Barcellona per vedere di
persona quei gioielli di architettura sostenibile.
Il tam-tam
fotografico sui “social” può funzionare molto di più della comunicazione
tradizionale.
Le riprese dei luoghi di interesse culturale, turistico, paesaggistico e la
loro messa in circolazione sui media, contribuiscono alla divulgazione di
quegli stessi luoghi generando curiosità in turisti e viaggiatori che
potenzialmente possono esserne fruitori attivi visitandoli.
In tempi di crisi economica bisognerebbe esserne
responsabilmente consapevoli.
Diritti fotografici organizzati
La questione
delle riprese fotografiche coi cosiddetti diritti di esclusiva andrebbero
ripensati. A tutti i livelli. Dall’Associazione Culturale organizzatrice di
eventi al museo privato al MiBACT, tutti dovrebbero facilitare la libera circolazione
di fotografie attraverso concessioni a settori: fotografi professionisti,
fotoamatori, dilettanti, pubblico generico.
Un’apertura
a un aggiornamento sulla questione, per una fruizione più democratica della cultura deve essere pretesa, per il benessere della divulgazione culturale.
Un esempio di
scaglionamento sui vincoli per le riprese fotografiche in occasione di mostre potrebbero
essere questi che ho scritto per il mio progetto Impossible Naples.
Andy Warhol si sta rivoltando nella
tomba
E torniamo
ala mostra di Andy Warhol che si sta svolgendo a Napoli.
Per chi
conosce il personaggio-Warhol, il re della Popular Art, colui che fu primo ad
avvicinare le masse all’arte attraverso l’iconografia consumistica, colui che
l’arte la riproduceva in serie, colui che aveva con sé sempre una Polaroid e
che a Napoli viene ricordato per le innumerevoli foto che scattava ai ragazzi
che lo attorniavano, sa bene che gli avrebbe fatto piacere il concetto di selfie da parte del suo pubblico.
Tra i diritti
fotografici, secondo le disposizioni della Fondazione, “nell’intenzione di
incoraggiare gli studiosi a fare uso delle immagini di Warhol, impone solo una tassa
nominale (nominal fee) a coloro che
desiderano riprodurre opere per scopi didattici e creativi”. La tassa nominale ha
un importo simbolico. Fatto sta che nel testo della licenza, non viene
contemplato l’utilizzo privato delle immagini.
Non sembra
che Andy Warhol abbia lui stesso dato disposizioni, prima di morire, relativamente
ai diritti di riproduzione delle sue opere e se abbia considerato l’evoluzione
dei tempi tanto da vedere lontano e comprendere quella che sarebbe stata la
fruizione sui social network e blog delle foto ritraenti le sue opere. Secondo
voi non avrebbe apprezzato la diffusione sfrenata sul web di selfie e di altre foto scattate durante
le sue mostre?
Secondo me,
sì. E si sarebbe anche divertito per il fatto di non aver dovuto pagare un solo
dollaro con tanta pubblicità gratuita che avrebbe portato acqua al suo mulino.
In fondo, più che artista, era un comunicatore, uno che era riuscito a creare
un grande brand di se stesso sfruttando la stessa pubblicità, senza essere un
grande pittore, senza essere uno scultore, senza essere un esperto serigrafista
o un regista o fotografo.
Credo che per questi vincoli sui diritti fotografici che lo riguardano, si stia rivoltando nella tomba dal 1987.
Flashmob fotografica
Il cambiamento
va preteso. I diritti si ottengono sempre con le battaglie. Un semplice
cittadino deve avere il diritto culturale di potersi portare a casa un proprio
ricordo fotografico da far vedere agli amici o piazzarlo su internet. Perché lo
fa senza scopo di lucro o perchè fa il suo lavoro nel caso fosse un fotografo professionista che lavora con la Stampa.
Occorre
scuotere chi è delegato alla gestione del diritto popolare a realizzare foto in
occasione di eventi culturali.
La cultura
non deve essere privatizzata per concentrare il business su pochi. Siamo in un
mondo nuovo ed è bene che ci si adegui.
È inammissibile
che ci siano cittadini di serie A e di serie B: perché l’amico del Sindaco ha
potuto scattare e postare la foto su Facebook fattasi accanto alla serigrafia di Lucio
Amelio e a chi ha visitato la mostra nei giorni successivi gli è stato impedito
di scattare?
Alcuni rumors in rete fanno sapere che in prossime
occasioni come questa di “Vetrine” verrà fatto un flashmob. Protagonisti alcuni
fotografi di Napoli. Sarà una guerra a colpi di click!